“Notizie in… Controluce” – luglio 2008
Alessandro Moreschi
Le origini della castratione euphonica sono perse nelle nebbie del tempo, ma c’erano certamente cantanti eunuchi nel coro della basilica bizantina di Santa Sofia nel primo millennio, ed è molto probabile che ci siano stati cantanti evirati nella Spagna medievale musulmana (nel mondo arabo, c’era una lunga tradizione degli eunuchi come guardiani dell’harem e, come in Cina, spesso divennero uomini di gran potere alla Corte).
Ma il luogo del loro splendore è stato l’Italia, ove apparirono nella metà del Cinquecento (è degno di nota che, in principio, erano tutti “importati”, o dalla Spagna, o, più stranamente, dalla Francia, paese questo dove ebbero poco successo anche nei loro secoli di gloria fra il 1600 e il 1800). Benedetto dalla Chiesa – il Papa Clemente VIII – li dichiarò fatti “per l’onore di Dio”, ed essi soppiantarono rapidamente i falsettisti già esistenti nei cori ecclesiastici (ove, sotto la proibizione Paolina, non cantarono mai le donne). Ma è stato lo sviluppo parallelo del teatro lirico nei primi anni del Seicento che sigillò il loro successo.
In un mondo teatrale dedicato alla fantasia, ed alla stravaganza, i castrati divennero le prime superstelle della musica. Maestri della tecnica vocale, grazie ad un addestramento lungo ed intenso fatto, in pratica, senza l’interruzione della pubertà, spesso erano “grandi divi” del palcoscenico: “difficili”, arroganti, scandalosi, maliziosi, ricchissimi – soggetti perfetti dei pettegolezzi giornalistici. Gli anedotti pullulano: la Regina Cristina di Svezia era talmente affascinata dai castrati che, durante una guerra fra Svezia e Polonia, organizzò un armistizio affinché potesse “prendere in prestito” dal Re polacco Sigismondo III il famoso evirato Baldassare Ferri (1610-1680). Spesso i castrati ebbero fama fuori scena. A dispetto del loro ovvio “difetto”, tanti di loro erano famosi amanti: Gaetano Majorano (detto il Caffarelli, 1710-1783), sorpreso “in flagrante” dallo sposo di una donna “di qualità”, dovette nascondersi in una cisterna nel giardino; avendo preso un raffredore, fu costretto ad abbandonare la scena per settimane. Molti anni più tardi, divenuto molto ricco, fece costruire un palazzo a Napoli, con quest’iscrizione sul timpano: “Amphion Thebas, Ego Domum”. Cosciente della fecondità del fondatore della antica città (che aveva almeno sette figli), un arguto del quartiere aggiunse all’iscrizione: “ille cum, tu sine”.
Una delle storie più strane fu quella del più famoso dei castrati, il soprano Carlo Broschi (detto il Farinelli, 1705-1782). Dopo una carriera mai uguagliata di adulazione pubblica dappertutto in Europa, la Regina Elisabetta Farnese lo chiamò alla Corte di Spagna. Seconda moglie del Re Carlo V, ella era convinta che la stupenda voce del Broschi poteva penetrare il buio della mente di suo marito, che soffriva di una specie di depressione maniatica nominata hipocondria gravis dai medici del Re, che non potevano aiutarlo. Non è certo che il trattamento funzionò, ma il cantante rimase 22 anni nella Corte spagnola, divenuto favorito e poi amico di re e regine, direttore delle opere e spettacoli reali, ecc, ecc.
Simboli del mondo dell’opera seria metastasiana, era inevitabile che, con un cambio di gusto nel teatro lirico, la stella delle stelle evirate alla fine calò. Il grande Rossini lo lamentò, ma la nuova moda era per “veri” uomini, tenori col do “di petto”, colla virilità innegabile, perfetta per il teatro del Romanticismo. Dopo la loro ultima apparizione sulla scena (nel “Crociato in Egitto” di Meyerbeer, Venezia 1824), i castrati si ritirarono nel seno della Chiesa. La nuova Costituzione dello Stato Italiano proibì definitivamente la castrazione, ma nell’ambiente tradizionale della Cappella Sistina soppravissero fino al 1903. L’ultimo fu il famoso monticiano Alessandro Moreschi, che morì il 21 aprile 1922.
Una storia lunga, piena di gloria e fama e, dal punto di vista morale moderno, di vergogna e crudeltà. Ma, nonostante tutto, mi chiedo: quanti fra noi, trasportati in un teatro del Settecento, ascoltando quella meraviglia della voce umana, avrebbero potuto resistere al famoso grido: “evviva il coltello!”?